475 anni fa ci lasciava la figura di Angelo Beolco detto il Ruzante. (Nasce a Pernumia forse nel 1496, muore a Padova il 17 Marzo 1542).
Un autore che fece del “pagano” la sua lingua madre, e portò sulla scena dei personaggi legati alla terra, personaggi vicini al popolo.
Nella critica, l’immagine di Ruzzante è variata nel tempo. Creduto autore “tutto istinto”, come lo definì Emilio Lovarini, tra i suoi primi studiosi, oggi Ruzzante è unanimemente considerato autore “colto”. Tra le altre prove di questa sua cultura ci sono le citazioni o i riferimenti interni alle sue opere, che spaziano dalla cultura classica a echi della cultura luterana d’Oltralpe. Nel corso dei secoli la sua fortuna è stata alterna. Nei primi decenni successivi alla morte, e fin quasi alla fine del secolo, fu citatissimo, anche se, dalla natura di predette citazioni, dobbiamo pensare che derivino al più da tradizioni orali che dalla lettura dei suoi lavori, le cui pubblicazioni sono tutte postume.
Autore di opere teatrali, trasse per se stesso lo pseudonimo di Ruzzante, dal nome di un personaggio delle sue commedie, un contadino veneto che è stato differentemente caratterizzato di opera in opera. Le varianti del personaggio corrispondono alla diversa prospettiva da cui l’autore ha voluto analizzarlo, in uno scavo progressivo mai viziato da populistico fervore, e che, nel complesso delle opere, porta ad un ritratto “a tutto tondo” della realtà del contado pavano.
Il nome “Ruzzante” era peraltro diffuso (e lo è anche oggi) in un’area geografica che il Beolco frequentava: a Pernumia e dintorni. Quello di Ruzzante era il ruolo che Beolco stesso interpretava nella messa in scena delle sue commedie. Unica eccezione costituisce il Secondo Parlamento de Ruzzante – Bilora in cui interpretò il ruolo dello zio Pitaro.
Fu un grande sperimentatore, mettendo a frutto proprio l’esperienza diretta di attore e regista. La sua frequentazione di diversi generi non fu mai arbitraria. Trovando un argomento, sceglieva, tra le strutture della tradizione, quella che riteneva più idonea a rappresentarlo, ed entrando in essa, la modificava dall’interno. Riuscì così a rinnovare il mariano, l’egloga, la commedia pastorale ecc. Insaziabile curioso, non mancò di polemizzare con i più illustri contemporanei, in particolare col Bembo, ampiamente schernito proprio nella Betia.
Gli studiosi hanno individuato, proprio intorno al 1530, un certo cambio di atteggiamento nel Beolco: il mondo dei poveri, degli sfruttati, dei contadini, è presentato con l’amarezza di chi conosce la vita squallida e segnata dalle ingiustizie delle classi subalterne. Gli atti unici, sempre in dialetto, del 1528- 1529, “Dialoghi rustici, Dialogo secondo (o Bilora) e Parlamento de Ruzante che iera vegnù de campo (“Ragionamento di Ruzante, reduce dal campo di battaglia”), sono opere in cui Ruzante affronta la questione città – campagna, contrapponendo al vizio e alla corruzione della prima la naturale forza vitale della seconda, e la secolare sottomissione e condanna alla povertà dei ceti contadini.
Le alterne fortune critiche di Ruzzante si legano a due fattori. Il primo è costituito dalla difficoltà linguistica. Infatti il PAVANO del suo parlato è di fatto scomparso da più di due secoli e risulta, a tratti, inintelligibile anche ai suoi conterranei. Le riduzioni in italiano perdono lo slancio linguistico, il senso più profondo del gioco legato ai richiami più attinenti alla struttura semiotica.
Il secondo fattore ha profonde radici storiche. Il definitivo avvento della borghesia ingenerò quella che è la malattia ineliminabile della cultura veneta, e anche italiana: il disimpegno. Tre anni dopo la morte di Beolco fu stipulato il primo contratto della COMMEDIA. Si trattava di un patto tra attori, e la Commedia dell’Arte fu essenzialmente questo: un accordo tra professionisti in ottica del divertimento puro. Affermatasi a discapito delle classi subalterne, la borghesia non amava l’inquietante verismo ruzzantiano; i contadini, dopo quella fugace apparizione alla ribalta della scena, dovevano cadere nell’oblio. Per questo, dal Seicento in poi, l’opera del Beolco finisce nel dimenticatoio, per riaffacciarsi solo agli inizi del XX secolo agli onori della scena. Le sue opere sono tornate ad essere rappresentate nella Loggia Cornaro, scena rinascimentale per eccellenza.
Il giullare italiano Dario Fo, durante il discorso pubblico nel momento in cui veniva insignito del Premio Nobel per la Letteratura, così definiva Ruzzante:
« Uno straordinario teatrante della mia terra, poco conosciuto… anche in Italia. Ma che è senz’altro il più grande autore di teatro che l’Europa abbia avuto nel Rinascimento prima ancora dell’avvento di Shakespeare. Sto parlando di Ruzzante Beolco, il mio più grande maestro insieme a Molière: entrambi attori-autori, entrambi sbeffeggiati dai sommi letterati del loro tempo. Disprezzati soprattutto perché portavano in scena il quotidiano, la gioia e la disperazione della gente comune, l’ipocrisia e la spocchia dei potenti, la costante ingiustizia[1] » |
A Padova gli è stato dedicato un teatro e poco distante un tratto della riviera (dalla questura a via Rudena).
In numerose città, tra cui Milano, gli è stata dedicata una via.